di Umberto Malafronte
Il problema del PCB sembrò ufficialmente risolto nel lontano 1983 allorché anche la Caffaro di Brescia cessò la produzione di questa classe di composti; sebbene con oltre dieci anni di ritardo rispetto al Giappone prima e poi agli altri paesi industrializzati. Ma le minoranze ambientaliste attive sul territorio bresciano, tra cui i “Gruppi di Ricerca Ecologica”, di area neofascista, conoscevano la pericolosità dei PCB per averli studiati con serietà; quindi continuarono la loro denuncia attivandosi con una raccolta di firme e una interrogazione parlamentare ad opera dell’allora parlamentare del MSI-DN Staiti di Cuddia.
Tutto vano: da allora le autorità civili e sanitarie posero una pietra tombale sulla questione per quasi un ventennio; fino a che cioè non cominciarono a moltiplicarsi i casi conclamati di patologie direttamente collegabili al PCB e in coincidenza con l’uscita di un libro di M. Ruzzenenti, ben documentato sulla storia della Caffaro.
Per comprendere il disastro ambientale causato, in ultima istanza, da una classe politica incompetente e criminale, occorre fare lo sforzo per comprendere cosa sono questi composti chimici e quali sono le loro caratteristiche.
I PCB sono stati prodotti fin dagli anni trenta per le loro ottime qualità isolanti e lubrificanti ma risultano essere composti non idrosolubili, quindi non smaltibili attraverso una diluizione estrema fino alle soglie di sicurezza, e non combustibili. Essi sono piuttosto solubili nei grassi e una volta nel terreno, per la loro persistenza, passano attraverso la catena alimentare dall’acqua ai foraggi e da questi agli animali e agli organismi umani, provocando malattie epatiche, danni al sistema endocrino ed anche forme di cancro, secondo le ricerche più recenti.
Di conseguenza le tonnellate di PCB versate nell’ambiente sotto forma di reflui di scarto, costituiscono ancora oggi una bomba chimica che ha inquinato, secondo i dati più acclarati oltre 200 ettari di terreno e migliaia di ettari di falda acquifera non ben definita. Dall’epicentro della Caffaro l’inquinamento si è spinto verso l’area sud di Brescia coinvolgendo il quartiere di Chiesanuova e attraverso canali e rogge avanza a macchia d’olio interessando al momento una popolazione di 25000 abitanti.
Al dunque, è nostra opinione, ma è anche quella dei comitati interessati alla questione, che i finanziamenti destinati al disinquinamento siano insufficienti, considerato che da 15 anni Brescia è stata annoverata tra i siti di interesse nazionale per la gravità dell’inquinamento da PCB. Anche le pratiche per il disinquinamento non sono tutte ortodosse: non ci sembra la soluzione migliore quella di cementare il suolo inquinato, né tantomeno quella di alzare la soglia di pericolosità per risolvere il problema. Anche l’impegno della “Nuova Caffaro” che depura a proprie spese milioni di metri cubi di acqua ogni anno è una operazione molto parziale.
Vi risparmio le vicende aziendali che sono seguite alla liquidazione della prima Caffaro che hanno visto anche operazioni speculative di dubbia legittimità. Fatto sta che ora è anche difficile individuare i soggetti societari obbligati a finanziare le opere di risanamento ambientale. Tra quelli che dovrebbero essere gli eredi della “Caffaro”, della “Snia-Caffaro” in seguito e di quello che rimaneva dopo lo smembramento della società, troviamo, tra gli altri, soggetti ben noti alle cronache finanziarie e giudiziarie quali il Monte dei Paschi di Siena, la “rossa” Unipol, la GE Capital e altri.
La cosa la dice lunga sulla spregiudicatezza di una certa finanza creativa e sul loro potere condizionante; tanto è che neanche l’ordinanza di un ministro della repubblica (Galletti) è riuscito a far sborsare a questi soggetti i miliardi di euro che servono per una bonifica efficace; e alla fine ogni intervento in merito resta a carico dello Stato ovvero dei cittadini contribuenti, in attesa che si concluda il contenzioso giudiziario mentre il PCB continua la sua azione di inquinamento in aree sempre più estese.
In conclusione la partita non è chiusa e se gli altri soggetti sociali e politici si defilano per disillusione o stanchezza lasciando soli i nostri concittadini più colpiti, è ora che le realtà identitarie radicate sul territorio scendano in campo. A maggior ragione in un momento in cui giungono notizie di inquinamenti da cromo, proveniente da una industria di galvanostegia, e da altri metalli pesanti, che come i PCB e qualsiasi altra sostanza estranea alla realtà organica della natura, non sono da questa inserita nei cicli di trasformazione e permangono nell’ambiente come fattori venefici per tutti gli esseri viventi. Tale principio, proveniente da una scienza tradizionale e organicistica, fu la linea guida delle battaglie dei GRE di trent’anni orsono. Anche in questo, purtroppo inutilmente, il nostro ecologismo si distingueva per profondità di vedute dal vecchio e nefasto scientismo di stampo materialista.
Quindi non solo “Brescia ai Bresciani” ma soprattutto “Bresciani per Brescia”. Il nostro concetto di ambiente non è astratto e lontano come quello espresso da una certa sinistra; noi concepiamo anzitutto l’ambiente come lo spazio in cui viviamo, che rappresenta quasi la nostra estensione fisica, culturale e spirituale, il luogo della memoria condivisa e dei progetti futuri di una comunità popolare. Diventa quindi una questione di onore preservare il nostro ambiente sano e armonioso e un dovere tramandarlo alle generazioni future migliore di come l’abbiamo trovato. Ci deve guidare – e non potrebbe essere altrimenti – il principio tradizionale di “sangue e suolo” o se si preferisce quello più modesto di “popolo e territorio”. (altro…)
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