La diatriba sui “muri” che coinvolge l’Unione Europea, il caso Open Arms e i continui sbarchi sulle nostre coste sono solo gli ultimi esempi di quello che è uno dei “nodi” decisivi di questo secolo: l’immigrazione. Un tema che va affrontato con maturità e decisione se si vorrà costruire un futuro degno di questo nome per l’Italia e i popoli del mondo.
Le migrazioni chiamano in causa innanzitutto l’«identità», una parola che sembra sempre più “disturbante” nel panorama europeo, quando invece dovrebbe trattarsi semplicemente di un valore prezioso. Come ha scritto Giuseppe Valditara, «la crisi dell’Occidente e dell’Europa sta innanzitutto in questo: di fronte a popoli e culture sempre più convinti dei propri modelli e delle proprie idee, l’Occidente sta perdendo non solo le ragioni della propria storia e delle propria identità, ma soprattutto gli strumenti per difendersi e quindi per affermarsi».
Senza amore per la storia, per la patria e per il proprio territorio non può esistere d’altronde un confronto maturo e proficuo con altri popoli, non possono esistere processi migratori controllati, umani che rispettino sia la cultura di chi arriva quanto quella di chi ospita.
Le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno, gli scambi culturali sono fondamentali ed esempi virtuosi di “nuovi arrivati” che arricchiscono le nazioni sono molto frequenti. Ma bisogna allo stesso tempo essere realisti: pensare che si possa accogliere chiunque indiscriminatamente è un’utopia che non tiene conto della delicatezza di certi processi e dell’esplosione del tessuto sociale che l’immigrazione senza freni può comportare (il mondo no border è anche un mondo no welfare, chiarì lo storico tedesco Rolf Peter Sieferle).
Le proiezioni numeriche, d’altronde, raccontano una storia senza precedenti: nel 2065 gli immigrati in senso lato (includendo le cosiddette «persone con retroterra migratorio») saranno il 41,5 % degli abitanti in Italia, nel 2001 erano l’1%. Una dinamica che si registra in quasi tutti gli Stati europei. Proporzioni mai viste prime, neanche ai tempi delle «invasioni barbariche» e del crollo dell’Impero Romano.
Non a caso, Michel de Jaeghere ha formulato alcuni parallelismi tra la fine dell’Antica Roma e la crisi dei nostri tempi: in entrambi i casi, oltre a scontri tra diverse culture e popolazioni, ci furono anche crisi monetarie e l’implosione demografica di Roma, gli stessi mali che affliggono l’Ue.
Sembra quasi essere un avvertimento per tutti noi: urge al più presto liberarsi dall’«oicofobia», termine coniato dal filosofo Roger Scruton per designare un’ideologia che ripudia la propria cultura elogiando indiscriminatamente le altre. È la precisa ideologia delle oligarchie culturali e accademiche che dominano la comunicazione e impongono il “pensiero unico politicamente corretto”, tacciando di razzismo qualsiasi voce dissonante rispetto all’accoglienza indiscriminata e dall’idolatria dei diritti dell’uomo, attaccando quindi la storia e le peculiarità nazionali. Descrivendo questo mondo progressista, Daniele Scalea ha scritto che «il suo progetto è la realizzazione di una società nuova, multiculturale, e di un uomo nuovo, sradicato da tradizioni e nazioni. Quest’ideologia è intrinsecamente anti-occidentale: essa identifica nell’Occidente l’incarnazione di “imperialismo”, “razzismo” e “patriarcato”, triade malefica all’origine di tutte le ingiustizie che affliggono oggi come ieri il mondo e la società.
La decostruzione della tradizione occidentale è un obiettivo dichiarato e passa anche per la diluizione della sua civiltà in una realtà multiculturale, entro cui siano impiantati segmenti extra-europei integrandoli solo superficialmente e di certo non assimilandoli, bensì mantenendoli chiaramente distinti dagli autoctoni». Paolo Becchi ha aggiunto: «Masse di diseredati vengono spinti ormai da anni verso le nostre coste per immettere sul mercato forza-lavoro a bassissimo costo, ridotta in condizioni di schiavitù, utilizzata per lavori sottopagati se non addirittura illegali, alimentando così una guerra tra poveri che sfocia in episodi di violenza. Armi di migrazioni di massa, come titola il libro di Kelly M. Greenhill».
L’“esercito industriale di riserva” di marxiana memoria che alimenta guerre tra poveri, penalizzando i lavoratori (autoctoni in particolare) e non i ceti “parassitari” e benestanti, amanti dell’Ue ma lontani anni luce dalle esigenze del popolo: la grande “bomba sociale” del nostro tempo.
Non stupisce che le battaglie contro confini e identità nazionali sono riuscite spesso a unire la sinistra no border con l’alta finanza e le grandi multinazionali, le stesse che spesso chiudono i profili social di chi non si adegua al “pensiero unico” e impediscono il libero dibattito. Il fine di questo variegato fronte sembra essere quello descritto ancora da Becchi, cioè la creazione di «individui “astratti”, sostituibili, intercambiabili, senza una storia, una cultura, una lingua. In assenza di legami identitari forti non ci saranno più stranieri, perché in fondo lo saremo diventati tutti».
Sarebbe il caso di ricordarci che la forza di una nazione risiede anche nella percezione che di essa hanno i cittadini, nello spirito di comunità che permette di affrontare le sfide più difficili e guardare al futuro sacrificandosi in nome delle generazioni passate e future. Guillaume Faye ricordava che «un Sistema non uccide i popoli assegnando loro prove insormontabili guerre, carestie, epidemie, ma rodendo all’interno il loro voler vivere, sradicandoli dall’humus della loro cultura, scoraggiando ogni loro volontà di costruirsi un avvenire».
Non dimentichiamolo.
Articolo “Migranti, tra 40 anni saremo tutti stranieri?” di Francesco Carlesi, presidente dell’Istituto “Stato e Partecipazione”, per la testata nicolaporro.it
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