Sono passati tredici anni da quando Luciano Gallino scrisse “La scomparsa dell’Italia industriale“, ed è triste constatare come il titolo rimanga più attuale che mai. Il nostro paese, infatti, continua a perdere o a ridurre fortemente la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato fra i primi al mondo. L’Italia è uscita quasi completamente da mercati in continua crescita quali l’elettronica di consumo, né è pervenuta a far raggiungere un’adeguata massa critica a industrie dove ancora possiede un grande capitale di tecnologia e di risorse umane. Stretta tra tassazione abnorme e programmazione politica inesistente, l’impresa italiana segna sempre di più il passo, spesso mettendoci del suo. La progressiva deregulation in campo economico, che vide il suo apice tra gli anni ’80 e ’90 (per poi esplodere con Clinton) ha inferto i colpi definitivi e quasi mortali. Da allora, molti paesi “alleati” sono venuti a fare shopping d’industrie nel nostro paese. Non solo: gabbie europee, mancanza di investimenti, privatizzazioni, delocalizzazioni e abbassamento generalizzato delle tutele sociali per i lavoratori sono stati i corollari negativi. La beffa finale la fornisce quell’“esercito industriale di riserva” di marxiana memoria, spesso costituito dalle masse di immigrati in fuga dai loro paesi. Entrando in maniera incontrollata nel nostro paese ed immettendosi a prezzi competitivi nel “mercato del lavoro”, contribuiscono al decurtamento dei salari, con la complicità della cosiddetta sinistra. Una colpevolezza che nasce sia da un sostrato culturale fatto di pensiero debole e buonismo suicida a ogni costo, sia da interessi economici, come testimonia l’ambiguo ruolo di cooperative e Ong. (altro…)
Una volta disgregate le barriere in campo economico, è definitivamente esploso un fenomeno descritto ancora da Gallino, che sta cambiando nel profondo l’economia e l’essenza stessa del nostro essere uomini: il finanzcapitalismo. Questa parola sottolinea l’influenza e il predominio che il mondo della finanza esercita su governi e cittadini. Per via dei lauti guadagni che le numerose e complesse operazioni di borsa garantiscono, molte società hanno scelto e scelgono di tuffarvisi a capofitto, favorendo la drammatica deindustrializzazione descritta in precedenza. Nonostante la crisi di cui si stenta a intravedere la fine, ben l’80% dei titoli azionari mondiali rimane collocato nel settore della finanza puramente speculativa. “L’unico misuratore di valore, stabilito dall’equilibrio tra chi compra e chi vende, è il mercato finanziario. Il resto sono cavolate”, arrivò ad affermare Sergio Marchionne.
Gli stessi Stati Uniti, seguendo l’influenza di pensatori quali Alvin Toffler, cominciarono sin dagli anni ’70 a drenare risorse verso i servizi e il mercato borsistico, trascurando l’industria. E’ da allora che il capitale finanziario transnazionale ha cominciato a divenire decisivo nelle sorti del paese, e poi del mondo. Un passaggio che, oltre a pagare ricchi dividendi a manager e banchieri, ha avuto effetti epocali sugli equilibri internazionali e sulla valuta americana, moneta mondiale di riserva e di cambio. Se nel 1945 era il potere politico, economico e militare nordamericano che sosteneva l’egemonia del dollaro, dal 2009 diventa evidente il contrario: l’egemonia del dollaro sostiene un potere politico, economico e militare in crisi. Multinazionali, hedge funds, fondi pensione (e grandi nomi come quelli di George Soros), con la complicità sempre più evidente del mondo bancario, possono da soli muovere cifre impressionanti e sopravanzare interi Stati. “Tramonta mai il sole sull’impero anonimo della finanza e dello scambio?” si chiede il quotidiano liberale Il Foglio. L’approvazione del Ttip, in questo senso, sarebbe il passaggio finale.
Fermare il meccanismo costituisce uno spartiacque di civiltà. Un ritorno alla conoscenza (concetto ben diverso da quella della semplice informazione) sarebbe il primo passo, intendendo qui qualcosa che si deve sudare e costruire, e che può nascere unicamente radicato nel territorio. Solo un ritorno alle radici, alla vera conoscenza e alla creazione di prodotti che abbiano una forte identità può quindi fornire soluzioni che abbiano un futuro. Diversi studiosi, tra cui il geografo Sergio Conti, hanno rilevato come tra le maglie di un mondo in continua evoluzione, stiano risultando vincenti le aziende capaci di fornire risposte di questo tipo (in Germania in particolare). Proprio il nostro paese, sede di un patrimonio storico – artistico senza pari e capace in passato di esprimere eccellenze quali i poli industriali del fascismo, l’Eni o il modello Ivrea, avrebbe le potenzialità per uscire dalla palude. Basti pensare che, nonostante tutto, l’Italia mantiene una posizione di rilievo nella classifica dei paesi che depositano più brevetti all’Ompi (organizzazione mondiale della proprietà intellettuale), segno di un mondo culturale e imprenditoriale che non vuole arrendersi. Riprendendo e migliorando il concetto di distretto industriale, sarebbe vitale elaborare strategie che coinvolgano il pubblico e il privato (e anche le Università), creando quella densità istituzionale che è il primo passo per la valorizzazione della produttività e dell’identità territoriale, oltre che per la sopravvivenza stessa di una nazione coesa e degna di nome. La lotta per preservare le proprie eccellenze e per la sovranità, demonizzata dall’establishment e dai media, è l’unica che può impedire “la standardizzazione del genere umano dalla culla alla bara” sognata da capitalismo e finanza. Una omologazione capace di appiattire le diversità e colpire l’essenza stessa dell’uomo ben più profondamente di qualsiasi dittatura, come già Pasolini aveva drammaticamente denunciato più di quaranta anni fa.
Francesco Carlesi
(tratto da il Primato Nazionale)
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